A 26 anni dalla strage di Capaci

In memoria dei Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Pubblichiamo oggi, a 26 anni dalla strage di Capaci, l’intervento di Giuseppe Candido, segretario dell’associazione Radicale Nonviolenta, Abolire la miseria, in occasione dell’incontro avvenuto nella sala consiliare del comune di Sant’Onofrio (VV), intitolata a Givanni Falcone e Paolo Borsellino.

21 luglio 2017, Sant’Onofrio (Vibo Valentia)
Due servitori dello Stato, durante l’Era Scalfaro, in un’Italia al termine della prima repubblica in cui la corruzione era fatta regola.
Falcone e Borsellino, entrambi protagonisti di una decisiva svolta nella lotta alla mafia, sono stati e si sono definiti non eroi, ma uomini al servizio delle istituzioni, leali servitori della Repubblica italiana, fino all’estremo sacrificio della vita in difesa dei valori che fondano la giurisdizione in uno Stato di Diritto.
Il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone viene ucciso con una bomba che provoca quella che ricordiamo come strage di Capaci. Un cratere aperto nell’asfalto in cui hanno perso la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Bisognerebbe ricordarsele le parole di Falcone:
Prima vieni chiacchierato, poi ti rimproverano di “essere chiacchierato” e alla fine, quando le chiacchiere stanno a zero, ecco che tutto si fa più facile, perché lo si è capito che tutto quel chiacchiericcio ha ottenuto il risultato di isolarti; e se ti hanno isolato allora puoi anche essere colpito”.
Dolore e sconforto, dopo 25 anni, si confondono con la memoria di quella che fu – come l’ha definita qualcuno – una ferita allo Stato che non potremo mai sanare. Ricordo quel 23 maggio: eravamo in Irpinia – con dei colleghi universitari – per la tesi di laurea.
Dopo neanche due mesi, in un’Italia ancora sgomenta, attonita dalle immagini di quel cratere, il 19 luglio – in una normale domenica d’estate – via D’Amelio si trasforma in un teatro di guerra. La mafia ha dichiarato guerra allo Stato e una 126 imbottita di esplosivo fa fuori Paolo Borsellino e la sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna agente di PS ad essere uccisa in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Un’altra profonda ferita allo Stato, una ferita che non si può sanare ma che, proprio per questo, è necessario conoscere per capire e ricordare. Ricordare alle giovani generazioni – alla memoria del futuro se vogliamo che il futuro abbia memoria – quelle due date tristi di 25 anni fa: il 23 maggio e il 19 luglio.
Per ricordarle però, come dicevo, bisogna conoscere ciò che veramente accadde, conoscere non solo il testo ma anche il contesto e porsi alcune domande. Chiedersi “Perché”. Perché Giovanni Falcone fu condannato a morte da Cosa Nostra per aver portato a termine, fino alla Cassazione, il maxi processo con 366 condanne ai boss della mafia palermitana. E chiedersi il perché di quel chiacchiericcio che ha ottenuto il risultato di isolare Giovanni Falcone e – una volta isolato – rendere possibile il “farlo fuori”. “Falcone i mafiosi li conosce bene e bene ha compreso le trasformazioni che seguono all’universo mafioso durante la fase di “modernizzazione” in cui i traffici illeciti legati alla droga proiettati su scala internazionale hanno preso il posto dei vecchi interessi rurali”. Falcone, della mafia conosce i linguaggi, i segni, i gesti.
 “Il denaro non puzza”, ma lascia tracce del passaggio e Giovanni Falcone le segue perché è tra i pochi che sa e che, soprattutto, vuole cercarle.
Il contesto: in quell’anno, mentre la politica fa i conti con tangentopoli, nel giro di qualche mese, viene ucciso il viceré di Palermo, Salvo Lima. E’ il primo “ramo secco”che non serve più alla nuova mafia. Poi il grande inquisitore, Giovanni Falcone, seguito da Paolo Borsellino. E poi un altro ramo secco: Ignazio Salvo.
“Chi spara e fa esplodere le bombe, segna la fine di un equilibrio e, naturalmente, anche l’inizio di un equilibrio nuovo. Altro”.
Non conoscendo personalmente la vicenda, per intervenire, ho dovuto documentarmi e, per farlo, non ho trovato di meglio delle parole di un amico, Valter Vecellio, giornalista del TG2 che, subito dopo “il botto” di Capaci, andò a trovare Giuseppe Ayala, allora membro del pool antimafia assieme a Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Liello e Pietro Grasso.
Ayala fa parte del “cerchio” ristretto e a Vecellio dice subito che:
<<Anche per le modalità con cui è stato eseguito all’attentato è stato affidato un significato politico che deve essere raccolto>>. E che: <<Non è riconducibile all’uccisione di un nemico della mafia da parte della mafia>>.
La mafia non perdona. E a Giovanni Falcone non gli perdona di aver portato a compimento il maxi processo fino alla cassazione ottenendo condanne definitive per tutti i boss della cupola siciliana. La mafia non gli perdona di aver seguito (e perseguito) con successo la pista del danaro, che non puzza ma lascia tracce per chi vuole e per chi sa cercarle; e non gli perdona di aver compreso bene le trasformazioni di quell’universo in cui gli interessi rurali lasciano il posto ai più lucrosi traffici di droga. L’FBI ha dedicato a Giovanni Falcone una delle sale del suo Quartier generale. Invece, oltre alla mafia che non perdona al Giudice quello che non gli perdona, Giovanni Falcone aveva tanti avversari anche tra quanti, nelle istituzioni lo avrebbero dovuto sostenere. Avversari che contribuirono a quell’isolamento che rese possibile il suo omicidio.
Poi toccò al Giudice Paolo Borsellino. “Ora tocca a me”, pare che avesse previsto lo stesso Borsellino.
Anche quella di via D’Amelio una strage che, a distanza di 25 anni e tre processi, di cui solo uno rimasto intatto, presenta ancora molti punti oscuri. Innanzitutto l’aspetto processuale: dal ’94 ci sono stati tre processi di cui uno solo è rimasto in piedi, il c.d. Borsellino Quater che ha smantellato i primi due nei quali erano state costruite false verità e condannati falsi colpevoli. Poi gli altri punti oscuri:
  • Chi sa che quel giorno, Paolo Borsellino – in vacanza al mare – sarebbe andato a trovare la madre in via D’Amelio?
  • Chi è che fa allontanare un ragazzo dall’area dell’esplosione poco prima che questa avvenga? E’ un condomino, è un vicino che sapeva?
  • E chi è Salvatore Vitale?
  • E ancora: Che fine ha fatto la famosa “Agenda Rossa” di Borsellino?
  • Chi ha indotto il pentito Scarantino alla calunnia e ad auto calunniarsi?
  • Chi ha condotto le manovre per occultare la verità?
Domande ancora senza risposta.
Paolo Borsellino, vittima anch’egli – insieme agli uomini e alle donne della scorta – delle “violenze criminali di Cosa Nostra che lo aveva condannato a morte con Giovanni Falcone, per aver costruito il c.d. maxi processo con la storica sentenza/ordinanza di rinvio a giudizio a carico di Abbate Giovanni più 706, redatta durante il c.d. “esilio” all’Asinara”.
Nell’intervenire al Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura lo scorso 19 luglio -in occasione della commemorazione ufficiale davanti al Capo della Stato, – il magistrato Giovanni Canzio, Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, ha ricordato la lettera che Agnese Borsellino, vedova del magistrato, scrisse il 23 maggio 2012 all’allora Capo dello Stato, il Presidente emerito Giorgio Napolitano.
“Nonostante lo Stato non avesse fatto tutto quanto in suo potere per proteggere la vita del proprio congiunto e per pervenire al rigoroso accertamento dei fatti, ebbene, la vedova – assieme coi figli Manfredi, Fiammetta e Lucia – ribadiva con serena determinazione il dovere di rispettare e servire le istituzioni. “Di avere fiducia in esse”, ha detto testualmente, “come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato”.
Sono solo 20 righi – ha spiegato il magistrato – e però fortemente innervati da sentimenti di dignità, sobrietà, compostezza, generosità, nobiltà d’animo.
Qualità speciali, – sottolinea il Presidente Canzio – proprie dei congiunti di un “amatissimo grande uomo”, per usare le parole con cui lo definiva la moglie Agnese. Un “grande uomo” che, ha ricordato ancora il Presidente della Cassazione Canzio, aveva consapevolmente scelto di donare il bene più grande che Dio ci ha dato: la vita. Un dono che Agnese Borsellino, a sua volta, ridona ai giovani, offre alla comunità affermando:
“Io non perdo la speranza di una società più giusta e onesta. Una nuova Italia”.
Perciò, ha spiegato ancora il Presidente Canzio:
“Gli Organi dello Stato hanno il dovere morale (oltre che l’obbligo giuridico, ndr) di accertare, far conoscere alla comunità, da chi e perché, dopo la strage di via D’Amelio, fu costruita una falsa verità giudiziaria. I motivi di un così clamoroso e indegno depistaggio, pure nell’acquisita certezza probatoria che fu Cosa Nostra a ideare ed eseguire il crimine.
Oltre ogni retorica del ricordo, la memoria della vita spezzata di Paolo Borsellino, di quella di Giovanni Falcone, va idealmente rinnovata e declinata come un pezzo importante, uno snodo decisivo della Storia d’Italia, così da trasmettere alle nuove generazioni, non solo di magistrati, le virtù del Coraggio e la passione civile dei due magistrati”.
E se questo è ciò che ha detto il Presidente Canzio, desidero concludere questa breve riflessione ricordando (anche a me) quanto chiesto invece da Lucia Borsellino, figlia del magistrato, intervenuta anch’essa lo scorso 19 luglio, per la commemorazione del padre presso il CSM.
“Noi figli abbiamo deciso di vivere – per quanto ci è stato consentito – una dimensione privata del dolore e del ricordo, …, nella convinzione che le istituzioni si impegnassero nella ricerca della verità per quella strage del 19
 luglio 1992, rispetto alla quale – è doveroso ricordarlo – dopo Capaci, non si era avvertita la necessità di approntare qualche misura in più, come la chiesta rimozione delle auto di via D’Amelio.
Noi figli avremmo continuato a mantenere questa dimensione se non fosse accaduto di scoprire che la verità non è stata pienamente trovata e che, ancora oggi a 25 anni, Giustizia non è stata fatta.
La conoscenza degli atti del c.d. processo Borsellino Quater celebrato sulle rovine conseguenti la demolizione dei due processi precedenti che consacrarono false ricostruzioni e falsi colpevoli, ci ha profondamente scosso, indignato, aggiungendo sofferenza ad altra sofferenza, oltre che a sollevare interrogativi di non poco conto.
Invero, dal dispositivo della Sentenza del Borsellino Quater è emersa tra le altre gravi anomalie, l’induzione alla calunnia del pentito, considerato chiave, Vincenzo Scarantino. Costui ha certamente calunniato se stesso ed altri, ma si constata (solo, ndr) che è stato indotto a farlo”.
Nella occasione solenne, difronte al Presidente della Repubblica e al Consiglio Superiore della Magistratura nel suo Plenum, Luicia Borsellino, il 19 luglio scorso, col rispetto istituzionale che si deve in questi casi, a nome di tutta la famiglia ha chiesto che:
A fronte delle anomalie emerse e riconducibili, verosimilmente, al comportamento di uomini delle Istituzioni, si intraprendano le iniziative necessarie per fare luce e chiarezza su quello che accadde veramente nel corso delle indagini che precedettero i processi Borsellino 1 e Borsellino bis.
La richiesta della figlia di Borsellino è motivata affinché, come la stessa ha sottolineato: “Al fine di una semplice istanza di trattamento, si chieda conto di comportamenti quantomeno anomali, così come, con estrema solerzia, mio padre dovette giustificarsi sotto la minaccia di un procedimento disciplinare, …, per dichiarazioni
in cui denunciava lo smantellamento del pool antimafia”.
“Prima ancora che con la legge,” – aggiunge la figlia del magistrato – “infatti, ciascuno di noi – a tutti i livelli – deve fare i conti con la propria coscienza per trovare lì – nella legge morale – quello che trova spesso riscontro nelle concrete disposizioni di legge”.
Per questo, permettetemi di concludere queste brevi riflessioni facendo mie le parole di Lucia Borsellino con cui chiude il suo intervento al Plenum del CSM ribadendo di ritenere essere questo, – chiedere conto dei numerosi errori processuali – il modo migliore per ricordare suo padre onorando la memoria di tutti gli uomini dello Stato caduti in quella tristissima stagione della nostra Repubblica, perché oggi, più che mai, anche noi “sentiamo la necessità di dare un significato a quel sacrificio”.

Pubblicato da Giuseppe Candido

Geologo, giornalista pubblicista, insegnate di scienze e matematiche di ruolo, ha pubblicato numerosi libri. Per informazioni complete su Giuseppe Candido puoi visitare il sito www.giuseppecandido.it